“Happier Than Ever”: Billie Eilish è cresciuta. Forse troppo

“Happier Than Ever”: Billie Eilish è cresciuta. Forse troppo
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Io il mio primo approccio con la cara Billie Eilish, che torna in questo caldissimo agosto con Happier Than Ever, l’avevo avuto ai tempi di FIFA 19. Dribblando cafonate ispaniche e i soliti pezzi indie rock inutili, mi attardavo a palleggiare con Ronaldo su You Should See Me In A Crown. Ero del tutto ignaro di come quella interessante freak sarebbe diventata probabilmente la più importante giovane artista del panorama mondiale.

Dal debut album di Billie sono passati solo due anni e qualche mese, in fin dei conti, ma il suo cambiamento non è limitato ai capelli candeggiati. Tutte le (tantissime) tracce di Happier Than Ever segnano un cambiamento di stile estremo, un raffinamento impensabile se si pensa a quanto fossero in fin dei conti acerbi i pezzi dell’esordio. Alla trap con le tastierine truzze, alle cazzate accompagnate dal solo ukulele, ai vaneggiamenti adolescenziali che hanno colpevolmente riportato in auge quel caro vecchio immaginario emo in una collettività di ascoltatori che ne avrebbe volentieri fatto a meno.

La linea sottile tra trap e bossa nova

Billie (o il fratello-produttore Finneas, o chi per loro, non importa) scrive oggi tracce di una pulizia sconvolgente. Le tematiche dei testi sono lontane anni luce dalle credibilissime dissertazioni sulle dipendenze di una sedicenne cresciuta in una borghesissima famiglia di artisti. E’ (quasi) tutto estremamente concreto, tra lunghi ed efficaci spoken word a tema body positivity (il già famigerato Not My Responsibility, proiettato nei tour già nel 2020), narrazioni su paparazzi e frequentazioni che devono firmare accordi di non divulgazione, storie romantiche dai finali ben poco rosei che contemplano molto concrete ricadute nella psicoterapia e/o nella pornografia (tema della conclusiva ballata acustica Male Fantasy, tra i migliori pezzi dell’album).

Tutto molto distante da quel disturbante incubo horror-trap che, prima della scoperta della dolcezza avvenuta in Everything I Wanted, permeava quasi tutte le note dell’artista. Ci scherza lei stessa, chiamando per davvero una traccia Billie Bossa Nova. Quasi a riassumere la mugugnata, sussurrata, vagamente triste e soprattutto sempre consapevole sensualità che permea tutte le tracce dell’album. Accompagnata per lo più da bassi piacioni, chitarre acustiche, qualche raro accento elettronico.

Avere quarant’anni a vent’anni

Una trasformazione in artista d’essai inaspettata e quasi traumatica, che brucia quasi tutte le tappe e che suona sicuramente autentica. Una mossa di chi non ha più bisogno di intercettare un pubblico enorme e può permettersi di cantare di ciò che vuole costruendo sulle basi che vuole. Che porta come risultato un album dalla qualità altissima e il cui unico problema è quello di durare quanto un concept dei Dream Theater. E forse di compiacersi un po’ del suo annoiato snobismo.

Sarà un caso, ma gli episodi migliori coincidono con quelli in cui Billie pare essere davvero più felice del solito e uscire dal suo impeccabile personaggio, e che poco o nulla c’entrano con tutto il resto. Il pop-rock da Paramore della title-track. La techno da scena di inseguimento con Vin Diesel di Oxytocin. Oppure ancora NDA, unica traccia vicinissima allo stile dell’esordio. Pezzi che testimoniano come le cartucce che Billie Eilish può sparare sono tante e parecchio variegate. Che probabilmente non conviene arrivare ai quarant’anni già ai vent’anni, e che una bond song sulle spalle non obbliga necessariamente a diventare un monumento all’immobilismo come Adele.

È solo una preoccupazione per il futuro, tuttavia: Happier Than Ever, con un paio di skip tattici, è un centro assoluto e un disco sentito e mostruosamente comunicativo. E soprattutto, e non è scontato considerato i milioni di dollari in ballo, autentico. Dopo il “please don’t be me” pronunciato con ancora i Grammy in mano, Billie dimostra di guardare al passato con vago imbarazzo. Di essere cresciuta come donna e come artista. Forse soltanto, come artista, un po’ troppo.

a cura di
Riccardo Coppola

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