IRA: “l’immediatezza non è un valore artistico”: l’intervista a Iosonouncane

IRA: “l’immediatezza non è un valore artistico”: l’intervista a Iosonouncane
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Abbiamo chiacchierato con Jacopo Incani per farci raccontare il suo ultimo disco IRA

Lo scorso maggio è uscito IRA, il terzo attesissimo disco di Jacopo Incani, noto al pubblico con lo pseudonimo Iosonouncane.

IRA arriva sei anni dopo DIE, ed è un viaggio attraverso paesi lontani, che racconta di frontiere, prigioni e deserti. Difficile definirlo: IRA è un lavoro complesso, enorme, che travalica i confini.

In questi mesi è possibile ascoltarlo dal vivo, grazie al tour che Iosonouncane sta portando in giro per l’Italia e che il 20 agosto arriverà anche in Romagna, a Villa Torlonia di San Mauro Pascoli, per la rassegna Acieloaperto.

Jacopo, iniziamo a parlare subito del tuo ultimo lavoro, IRA. Dove hai trovato l’ispirazione per questo disco? Dentro ci sono tante lingue diverse, è facile immaginarsi queste persone attraversare dei paesi lontani. C’è stato un viaggio che ti ha portato a questa suggestione o magari hai seguito un filo narrativo particolare?

No e sì. No, perché l’idea è a prescindere da viaggi reali fatti. Però è anche accaduto che negli anni in cui lavoravo a questa idea ho fatto diversi viaggi che poi si sono rivelati significativi per varie ragioni. Su tutti un lungo viaggio in Marocco, uno a Stromboli e Ginostra, uno più recente a Lanzarote e poi un altro ancora a Marsiglia. Diciamo che, se un po’ forzatamente, si può dire che DIE l’abbia scritto in Sardegna, e così non è stato perché è avvenuto solo in parte, per quanto riguarda IRA sicuramente ci sono state delle tappe nel processo di scrittura significative in questi luoghi.

Oggi, soprattutto dopo questa tua ultima opera, è più facile identificarti come un compositore anziché come un cantautore, se mai lo sei stato. L’idea è che un lavoro come IRA richieda un grande sforzo. Non si tratta di un disco semplice, mi hai detto che ci sono voluti anni. Come funziona il tuo processo creativo? Realizzi materiale avendo bene in mente un obiettivo e una forma finale oppure prima scrivi materiale e poi realizzi un disco?

La forma del disco mi è venuta in mente quando già avevo iniziato a scrivere del materiale, e il materiale era già tantissimo.

Nel momento in cui sono emerse alcune caratteristiche musicali ho banalmente capito che non si sarebbe trattato di canzoni brevi e asciutte, o addirittura di canzoni chiuse, ma che avrei lavorato maggiormente su delle forme aperte. Questa cosa ha portato con sé immediatamente l’idea di un disco monumentale, ciclopico.

La differenza che segna lo spazio che c’è fra alcuni brani, come ad esempio fra Nuit e Hajar, è enorme. Sono brani molto, molto diversi. O quella che c’è tra Soldiers e Priere. Ho capito che potevano convivere solo all’interno di un paesaggio veramente vasto.

Quindi questa idea è nata innanzitutto come un’idea musicale. Poi un’idea prettamente musicale porta subito a un’idea che invece si muove su un piano narrativo o poetico. Faccio molta fatica a scindere i piani. È nata prima la musica o le parole, è nata prima la musica o l’idea? Per me sono vasi comunicanti.

Non sono uno che scrive i testi da una parte e poi li va a musicare o viceversa, crea prima la musica e poi ci va a scrivere sopra i testi per ragioni staccate dalla musica. Si muove tutto insieme, per questo motivo credo di essere sempre stato un compositore ancora più che un cantautore, se intendiamo per cantautore la figura di colui che scrive le parole e le usa con musiche a sostegno. Per me non è mai stato così, nemmeno per il primo disco che è stato il più verboso della mia discografia.

La tua dimensione è più quella della composizione in solitudine oppure lavori insieme agli altri musicisti?

Assolutamente una dimensione solitaria, almeno in una prima fase. La scrittura è un processo solitario.

Foto di Silvia Cesari
Tra DIE e IRA sono passati diversi anni. Diciamo che la differenza che salta immediatamente all’orecchio è l’uso della voce, che in DIE è molto a fuoco, singola, in IRA invece è plurale, le voci sono tante, si confondono, sono lontane, non sovrastano la musica ma diventano uno strumento. Ci sono invece dei tratti comuni tra questi due dischi?

Sono due lavori molto diversi. Quello che li accomuna è il mio approccio alle armonie. Ci sono delle armonie in IRA che richiamano quelle di DIE. In IRA ci sono diversi pezzi che sono costruiti su dei bordoni, ovvero su un accordo unico, così come Tanca. E allo stesso tempo ci sono dei brani con armonie molto articolate come avevo fatto in Buio. Ma c’è il classico giro discendente e malinconico di Stormi anche in Soldiers.

Quello che unisce i due dischi è la mia mano, il mio modo di scrivere le musiche, quello che sto pian piano sviluppando. C’è anche la mia voce, che però è cambiata. Intanto perché ho cinque anni in più, quindi la voce cambia come il resto del corpo, si abbassa e si perdono un po’ di toni in alto e li acquisisci in basso. Direi che da un punto di vista tecnico c’è quello a tenere insieme una serie di mie manie compositive. Sicuramente c’è anche un sentimento di fondo, un mio approccio istintivo alle cose e la mia emotività.

In un’epoca di semplificazione hai realizzato un disco stratificato, difficile ma che al tempo stesso è anche stato immediatamente percepito come enorme dalla stampa musicale. Si è parlato tanto e si è discusso tanto di IRA. Ti aspettavi un’accoglienza del genere?

No, quando stavamo per pubblicare IRA ero abbastanza tranquillo. Nel senso che godevo della quasi totale assenza di aspettative sul mio lavoro. In qualche modo ero stato dimenticato. Nell’ambiente si dava quasi per scontato che io avessi smesso.

Dopo DIE le aspettative erano alte, ed erano tante. Con IRA ero consapevole di aver fatto qualcosa che partiva dalla rinuncia di quelle che erano state le caratteristiche che avevano fatto di DIE un lavoro in qualche modo diffuso. Non c’era l’italiano, non c’era Stormi, non c’era la mia voce riconoscibile per come era stata identificata, quindi non sapevo cosa aspettarmi. Avevo la consapevolezza di aver fatto qualcosa di diverso, sia da quello che avevo fatto precedentemente che da quello che questo disco ha intorno. Però non avevo aspettative precise.

IRA richiede attenzione, penso che sia un album da ascoltare dall’inizio alla fine, senza interruzioni. Questo aspetto si contrappone a un modo di ascoltare musica molto comune oggi, più frammentato. Ti obbliga – in un certo senso – a fermarsi. Pensi sia possibile, oggi, tornare in qualche modo a quel tipo di ascolto? C’è stato un intento consapevole da parte tua, per portare le persone a fare ancora questa cosa e ad ascoltare DAVVERO la musica?

Non ho alcuna vocazione divulgativa o pedagogica quindi se la domanda è “hai fatto questo lavoro perché volevi riportare le persone a un certo tipo di ascolto” ti rispondo di no. Non credo neanche a presunte epoche d’oro né che si debba ritornare a nulla, non sono una persona nostalgica. Detto ciò però credo anche che ci siano lavori, che siano dischi, film o libri, che hanno pesature differenti. Ci sono film molto semplici e molto leggeri che puoi guardare e trarne godimento mentre cucini o fai le pulizie e ci sono film che non puoi guardare in questo modo.

Io sono convinto di questo ed è una conclusione che traggo dalla mia esperienza di ascoltatore o di spettatore. Ci sono dischi e film che ho ascoltato o visto poche volte eppure mi hanno influenzato enormemente. Non posso ascoltarli sempre. E ci sono dischi e film che ho ascoltato o visto un’infinità di volte e che hanno avuto nella mia evoluzione di musicista poco peso.

Sono convinto che il valore dell’immediatezza e dell’efficacia di cui la nostra società si è riempita non sia un valore artistico ma un valore economico. È un prodotto quello che una volta immesso nel mercato deve funzionare subito. Il capitale ha la necessità di far quadrare i conti immediatamente, io credo che chi si occupa di scrivere non debba avere questo tipo di mire e di necessità. È un problema che io non mi pongo. Io ho un’idea e cerco di realizzarla nella miglior maniera possibile. Mi faccio forte del fatto che sulle cose ci lavoro tanto e se porto avanti un’idea sono convinto. Al tempo stesso non sono così sciocco da ritenere che qualsiasi cosa io faccia vada bene.

Unisco all’istinto che porta all’idea, la consapevolezza artigianale. Quindi credo di dover fare semplicemente questo, e questo è quello che faccio. I discorsi sono posteriori all’opera, arrivano sempre dopo.

Foto di Silvia Cesari
A proposito di valenza data a posteriori. In IRA hai lavorato molto sull’identità e sul linguaggio. Hai mescolato inglese, arabo, francese, spagnolo per dare vita ad una nuova lingua. Ritieni che oggi questo disco abbia un valore “politico”? E se sì, dove risiede?

Credo si possa parlare di valore politico in senso assoluto e di valore politico in termini contingenti. È sicuramente un disco che ha una lettura politica possibile perché è un lavoro sul linguaggio e ogni lavoro sul linguaggio è un lavoro politico. Lavorare sul linguaggio significa lavorare su un’ipotesi di lettura del mondo e quindi di mondo stesso. Facendo un discorso di natura astratta o ideologica è, per queste ragioni qui, un lavoro politico.

E poi lo è anche per ragioni contingenti perché si immette in un contesto storico, in una geografia e lo fa sicuramente portando avanti un’idea antitetica e opposta in parte al contesto in cui si muove. Quindi porsi in questi termini, in un contesto che non solo è culturale ma è anche economico, è sicuramente un gesto politico.

Probabilmente IRA per alcune ragioni è un lavoro politico. Il gesto di realizzare e pubblicare IRA è un gesto politico.

È il contesto che determina la natura politica di un gesto artistico perché poi io, banalmente, ho fatto della musica, l’ho registrata e l’ho pubblicata. A prescindere dalle ragioni del mercato, che sono effimere e volatili, è sciocco dare rilevanza all’oggi. Il mercato musicale cambia ad una velocità spaventosa, la radio cambia ad una velocità spaventosa, la fruizione cambia ad una velocità spaventosa. Sarebbe sciocco pensare di vivere un’epoca definitiva. Questo è un errore che tutti stiamo commettendo.

Parliamo del tour. In questi mesi sei in giro per l’Italia e il 20 agosto sarai in Romagna, con il concerto a Villa Torlonia per la rassegna Acieloaperto. Dopo questo stop forzato dai concerti come è stato tornare sul palco?

È bello e strano. È già bellissimo fare il proprio mestiere dopo l’anno appena trascorso, che ha portato con sé le grosse tragedie ma anche, come nel mio personalissimo caso, l’impossibilità di pianificare e fare programmi. Il fatto di tornare a suonare è già una cosa bella. Poi è strano perché suoni sempre con il pubblico seduto davanti e con delle misure di contenimento e distanziamento che cambiano da città in città. Ci sono posti in cui tutto è molto rigido e posti in cui non lo è affatto.

È anche strano ogni volta tornare in tour dopo anni di stop. Ho 38 anni, il tour precedente l’ho fatto che ne avevo 35, quello precedente ancora ne avevo 32. Quindi tra 32 e 38 cambia tanto, cambia la tua vita, la tua resistenza a nove ore di automobile e tante cose.

Quello che ti posso dire è che sul palco siamo molto concentrati. Il set che facciamo è estremamente complesso. Anzi, è la cosa più complessa e faticosa che abbia mai fatto, di gran lunga. Suonare la chitarra elettrica in confronto è davvero una passeggiata. Quindi è un set che richiede tanta energia, una grande concentrazione e uno sforzo mnemonico enorme.

Il nostro gruppo di lavoro è estremamente concentrato perché il nostro obiettivo è fare la miglior cosa possibile, anche per un senso di responsabilità verso coloro che ti vengono a sentire in un’estate così particolare. Quindi è bello e strano, ma in senso positivo.

Noi non vediamo l’ora di vedere Iosonouncane live. L’appuntamento è per il 20 agosto sul palco di Acieloaperto, a Villa Torlonia (San Mauro Pascoli).

a cura di
Daniela Fabbri

credits foto copertina
Silvia Cesari

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Daniela Fabbri

Sono nata nella ridente Rèmne, Riviera Romagnola, nel 1985. Copywriter. Leggo e scrivo da sempre. Ho divorato enormi quantità di libri, ma non solo: buona forchetta, amo i racconti brevi, i viaggi lunghi, le cartoline, gli ideali e chi ci crede. Nutro un amore, profondo e viscerale, per la musica, in tutte le sue forme. Sono fermamente convinta che ogni momento della vita debba avere una colonna sonora. Potendo scegliere, vorrei che la mia esistenza fosse vissuta lentamente, come un blues, e invece sono sempre di corsa. Mi piacciono gli animali. Cani, gatti, procioni. Tutti.

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