“Se la strada potesse parlare”: Baldwin racconta il razzismo prima di Black Lives Matter

“Se la strada potesse parlare”: Baldwin racconta il razzismo prima di Black Lives Matter
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Se la strada potesse parlare, di James Baldwin, parla di ingiustizia e della forza dell’amore: quello tra due persone che si amano ma anche quello di una famiglia, che resta unita per affrontare le avversità.

In questa opera, Baldwin, parla anche di razzismo, povertà, dei problemi delle minoranze negli Stati Uniti e, soprattutto, di sofferenza.

Tish e Fonny sono due giovani afroamericani che vivono a New York. Lei ha diciannove anni, è bella e molto innamorata e lui è un ragazzo che ha frequentato una scuola per la classe povera, ma che è riuscito a riscattarsi grazie al sogno di diventare scultore. Tish nota Fonny perché è uno dei pochi ragazzi neri a non essere finito dentro al giro della delinquenza.

Ciò che è certo è che i due ragazzi si amano.

I due crescono in un contesto sociale difficile, consapevoli di far parte di una minoranza e di dover faticare il doppio per guadagnare ciò che agli altri sembra spettare per diritto di nascita.

Crescendo imparano entrambi a conoscere il disprezzo e la paura, a rendersi conto di quanto la città sia ostile nei loro confronti e di come il loro destino sia nelle mani dei bianchi.

Adesso posso dirlo, perché adesso lo so con certezza, che la città non ci voleva bene. Ci guardava come se fossimo delle zebre – e, sapete, a certi le zebre piacciono e a certi no. Nessuno però le vuole mai. É vero che non ho visto mole altre città, ma scommetto che New York deve essere la più brutta e la più sporca città del mondo. Deve avere i palazzi più brutti e la gente più cattiva. Deve avere per forza i peggiori poliziotti. Se c’è un posto peggiore vuole dire che è così vicino all’inferno da sentire l’odore che frigge. E, a pensarci bene, è proprio l’odore che si sente a New York d’estate.

I due giovani si conoscono da bambini e sviluppano un profondo legame che dura fino all’età adulta, quando Fonny viene ingiustamente accusato di stupro e finisce in galera.  

Il ragazzo, però, è innocente: è l’unico nero ad essere riconosciuto in un confronto all’americana. Inoltre la testimonianza della vittima viene, in parte, manipolata da un poliziotto bianco apertamente razzista, che puntava Fonny già da tempo.  

L’unica colpa del ragazzo, secondo Baldwin, è quella di aver trovato una propria passione: la scultura, il suo “centro personale”. Una passione che lo aveva tenuto alla larga da certi ambienti malsani, solitamente frequentati dai fratelli neri come lui.

Quella stessa passione che aveva salvato Fonny lo aveva anche messo nei guai e lo aveva fatto finire in prigione. Perché, capite, lui aveva trovato il suo centro, il suo centro personale, dentro di sé: e si vedeva. Non era il povero negro di nessuno. E questo è un crimine in questo fottuto libero paese. Devi essere un povero negro: ed è stato quello che i poliziotti hanno deciso quando Fonny si è trasferito in centro.

Quando il ragazzo finisce in carcere, Tish è incinta: i due prevedevano di sposarsi e andare a vivere assieme, in una soffitta presa in affitto. La coppia aveva trovato quella casa dopo tante, faticose, ricerche.

Il loro bambino rappresenta un barlume di speranza per le loro vite, una luce in fondo ad un lungo tunnel di disperazione.

La famiglia di Tish e il padre di Fonny fanno fronte comune per stargli vicino e cercare tirarlo fuori. Il padre del ragazzo non si fa problemi a rubare per racimolare i soldi per la cauzione e, in un momento di disperazione, Tish pensa anche di prostituirsi.

I tormenti narrati da Baldwin non sono solo quelli vissuti dalla comunità nera.

La donna che lo ha accusato di stupro fa parte anch’essa di una minoranza: è una giovane portoricana, madre di due bambini, che viene dalle favelas. La mamma di Tish andrà fino a Portorico per cercare di convincere la donna a ritrattare e, nel suo viaggio, scoprirà una miseria ancora più devastante di quella vissuta dalla comunità nera di New York.

Poi c’è il loro amico Daniel, anche lui incarcerato ingiustamente e segnato per sempre dalle esperienze vissute in carcere. Egli però, non ha la stessa fortuna di Fonny: non può contare su una famiglia che lo aiuti, è solo coi suoi drammi interiori.

Se la strada potesse parlare arriva dritto come pugno nello stomaco. La narrazione è dura, schietta e potente. È un dramma d’amore, ma anche un racconto vero e crudo della realtà. E la realtà, siccome appunto è vera, fa male.

Molto prima del movimento Black Lives Matter c’era James Baldwin. Baldwin era uno scrittore, poeta, saggista e drammaturgo afroamericano, che ha partecipato ai movimenti di protesta degli anni ’50-’60, a fianco di Malcom X e Martin Luther King.

Lo scrittore-attivista combatté le sue battaglie per i diritti civili con la penna e la voce, attraverso libri, saggi, interviste e interventi nelle strade e nelle università.

Nacque ad Harlem in una famiglia numerosa e in un contesto di estrema povertà. Lo scrittore Richard Wright notò il talento del giovane Baldwin e gli offrì una borsa di studio a Parigi. In Europa pubblicò il suo romanzo d’esordio, Gridalo forte: racconto di un afroamericano e del suo difficile rapporto con un padre violento.

Ma nei suoi libri, Baldwin, non racconta solo il razzismo ma anche altri temi tabù, alcuni vissuti in prima persona, come l’omosessualità ( ne La stanza di Giovanni ) e la religione nella comunità afroamericana.

Egli fu un grande critico dell’America e dei suoi ideali di libertà e uguaglianza, tanto sbandierati su carta, ma mai messi in pratica nella realtà. Dedicò tutta la sua vita a battersi per scardinare queste ipocrisie, insite nella società americana.

Le parole del suo ultimo manoscritto rimasto incompiuto, Remember this house, sono state lette da Samuel L. Jackson nel documentario candidato agli Oscar nel 2017: I’m not your negro.

Se la strada potesse parlare fu pubblicato negli Stati Uniti nel 1974. In Italia è uscito nel 2018 per Fandango Libri. Sebbene l’opera sia stata scritta parecchi anni fa, le sue tematiche sono, ancora oggi, attualissime.

a cura di
Silvia Ruffaldi

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Silvia Ruffaldi

Silvia ha studiato Scienze della Comunicazione a Reggio Emilia con il preciso scopo di seguire la strada del giornalismo, passione che l’ha “contagiata” alle superiori, quando, adolescente e ancora insicura non aveva idea di cosa avrebbe voluto fare nella vita. Il primo impatto con questo mondo l’ha avuto leggendo per caso i racconti/reportage di guerra di Oriana Fallaci e Tiziano Terzani. Da lì in poi è stato amore vero, e ha capito che se c’era una cosa che voleva fare nella vita (e che le veniva anche discretamente bene), questa doveva avere a che fare in qualche modo con la scrittura. La penna le permette di esprimere se stessa, molto più di mille parole. Ma dato che il mestiere dell’inviato di guerra può risultare un tantino pericoloso, ha deciso di perseguire il suo sogno, rimanendo coi piedi ben piantati a terra e nel 2019 ha preso la laurea Magistrale in Giornalismo e cultura editoriale all’Università di Parma. Delle sue letture adolescenziali le è rimasto un profondo senso di giustizia, e il desiderio utopico di salvare il mondo ( progetto poco ambizioso, voi che dite ?).

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