Wind of Change: l’inno di libertà di un mondo che non c’è più

Wind of Change: l’inno di libertà di un mondo che non c’è più
Condividi su

I follow the Moskva, down to Gorky Park, listening to the wind of change

Queste righe, così evocative e malinconiche da sembrare fuoriuscite direttamente dalla penna di Dostoevskij, sono in realtà le prime strofe della canzone manifesto di un’intera generazione.

foto da: myguidemoscow.com

Inizia infatti così Wind of Change, il brano che ha fatto da sottofondo musicale ai sogni di libertà e cambiamento di uomini e donne dell’Europa orientale durante gli ultimi mesi di vita dell’Unione Sovietica.

La genesi ed il successo di Wind of Change sono il perfetto esempio di come la musica, così come le arti in generale e lo sport, possono a volte immettersi nei binari della Storia (rigorosamente con la s maiuscola) fino a diventarne un’inseparabile compagna di viaggio.

Il rock ‘n roll oltre la cortina di ferro

La nostra storia inizia nell’URSS di fine anni Ottanta quando, sotto la presidenza di Gorbaciov, le aperture verso il mondo occidentale erano in (timida) ascesa. Approfittando di un clima a poco a poco sempre più disteso e tollerante, il musicista e produttore discografico Stas Namin, coltivò l’idea di organizzare un evento musicale a Mosca.

Fin qui non ci sarebbero stati problemi di sorta, se non fosse che il festival che Namin voleva organizzare era un festival di musica rock. Nel 1989, in Unione Sovietica non esisteva ancora McDonald’s, era proibito leggere Robinson Crusoe e La fattoria degli animali, i blue jeans erano merce di contrabbando e la Coca-Cola era bianca perché doveva necessariamente assomigliare alla vodka per poter entrare nel paese.

Immagine da: exberliner.com

È perciò semplice intuire come non solo il rock ‘n roll in quanto tale, ma addirittura un festival di musica rock, non fossero esattamente nelle simpatie del partito. Alla mera censura che la musica rock occidentale aveva sempre subito oltre la cortina di ferro, vanno aggiunte le repressioni violente perpetrate nella Germania Est nei confronti di club privati, editori, critici e musicisti.

È si vero che oltre la cortina di ferro si erano già esibiti diversi artisti di fama mondiale: i Rolling Stones a Varsavia, i Queen a Budapest e Bruce Springsteen a Berlino Est.

Non solo, sia Elton John che Billy Joel avevano suonato a Mosca e Leningrado rispettivamente nel 1979 e nel 1987. Viene naturale chiedersi quale fosse, quindi, la grande novità rappresentata da un festival di musica rock, visti i precedenti appena citati.

“È permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge”

Ebbene, parlando strettamente di Unione Sovietica, i concerti di Elton John e Billy Joel erano stati approvati con il freno a mano tirato. John si esibì in sale concerto a Mosca e Leningrado, alla presenza perlopiù di rappresentanti del Partito Comunista, agenti del KGB e membri dell’esercito. Concerti intimi, di basso profilo e che non dessero troppo fastidio insomma.

Andò meglio a Joel, che (grazie anche al progressivo “scongelamento”) riuscì ad esibirsi in maniera “occidentale” almeno nelle ultime tappe del tour, dato che nelle prime date il pubblico era pieno, ancora, di funzionari del partito e membri del KGB.

Immagine da: vice.com

L’evento che Namin aveva in mente, si sarebbe tenuto allo Stadio Lenin (l’attuale Luzhniki, dove nel 2018 si è disputata la finale dei mondiali di calcio) e sarebbe stato aperto a tutti.

Non vi sarebbero stati posti riservati ad ufficiali dell’esercito, agenti del KGB o esponenti del partito. Ciò che Namin aveva in mente era un evento popolare all’insegna della musica rock. Un qualcosa di mai visto in URSS.

Come giustificazione per l’organizzazione, venne ripetutamente usata la famosa frase di Gorbaciov “È permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge”. E il rock ‘n roll non era espressamente vietato dalla legge.

Moscow Music Peace Festival

Namin sapeva che per mettere in piedi un evento memorabile, servivano artisti dal calibro internazionale. Decise quindi di contattare Doug McGhee, un eccentrico manager musicale americano.

Tra gli assistiti da McGhee, all’epoca vi erano i Bon Jovi, i Mötley Crüe, gli Skid Row e gli Scorpions. Tutti avrebbero fatto parte della spedizione. Vennero reclutati anche i Cinderella e Ozzy Osbourne, oltre ai Gorky Park, una band heavy metal moscovita di cui Namin era l’agente. Nacque così il Moscow Music Peace Festival.

L’obiettivo ufficiale era quello di sensibilizzare le persone sui problemi legati all’abuso di droga e alcol (due piaghe ben presenti nell’URSS all’epoca). Quello ufficioso, era ripercorrere la strada tracciata a Woodstock.

Immagine da: russia beyond

Perché, in fondo, quello fu. Il Moscow Music Peace Festival ebbe lo stesso significato e la stessa portata che il festival di Woodstock ebbe, esattamente vent’anni prima, per gli Stati Uniti.

Il festival fu un momento di libertà e speranza, e a suo modo diventò una forma di protesta e dissidenza pacifica per un popolo che per troppo tempo aveva sognato un futuro diverso. Il tutto, fu reso possibile grazie alla musica.

Inutile dire che il Moscow Music Peace Festival fu un successo senza precedenti. Il 12 e il 13 agosto 1989, complessivamente più di 250.000 sovietici assistettero dal vivo alle due date previste. Non ci furono scontri né violenze, ma solo una grande fame di libertà e spensieratezza.

Wind of Change

Immaginate ora di essere a Mosca in quei giorni di agosto del 1989. La fibrillazione e l’eccitazione per ciò che sta per avvenire erano tangibili nell’aria. La speranza sembrava finalmente aver ritrovato la strada che l’aveva tenuta lontana dalla cortina di ferro.

Nessuno ha raccolto queste vibrazioni meglio di Klaus Meine, il cantante degli Scorpions. La sera prima dell’inizio del festival, tutti gli artisti si recarono allo stadio per un sopralluogo. Sul battello che li portava a destinazione, scortati dai soldati sovietici, Meine si rese conto che alcune delle più grandi rockstar mondiali erano a Mosca, insieme, per un festival all’insegna della pace e della libertà.

Fu questo piccolo viaggio ad ispirare l’artista tedesco, che dopo il festival scrisse la ballata rock che tutt’oggi rimane il singolo internazionale più diffuso in Russia: Wind of Change.

Immagine da: Wikipedia

Il successo della canzone è facilmente spiegabile. Non parla di una voglia di libertà generica e astratta, no. Parla proprio del cambiamento tanto sognato e agognato non solo dal popolo sovietico, ma da tutti i popoli dell’Europa orientale. Il testo è infatti pieno di riferimenti espliciti sia geografici che culturali, a Mosca, simbolo dell’intero blocco orientale.

Meine scrisse il testo nell’autunno del 1989, pochissimo tempo prima del 9 novembre, quando venne abbattuto il Muro di Berlino. Wind of Change uscì nel gennaio del 1991, meno di un anno prima della definitiva dissoluzione dell’Unione Sovietica. Un anno prima, nel 1990, era invece avvenuta la riunificazione tedesca.

Wind of Change accompagnò un’intera generazione fuori da un mondo che non li capiva più e dal quale volevano scappare. Riuscì a diventare un inno trasversale al cambiamento nell’Europa dell’Est, da Berlino a Mosca, da Budapest a Varsavia.

Oggi, la canzone è quasi un “reperto storico” di un mondo che sembra lontano, e i cui echi arrivano a noi tenui ed ovattati. Un mondo in cui per assaporare la libertà, bisognava seguire la Moskva, giù fino a Gorky Park.

a cura di
Simone Stefanini

foto di copertina da
ondalternativa.it

Seguici anche su Instagram!

LEGGI ANCHE – Pescara “scende in piazza” per protestare contro il lockdown
LEGGI ANCHE – Dal calcio alla musica: John Paul Gascoigne
Condividi su

Simone Stefanini

2 pensieri su “Wind of Change: l’inno di libertà di un mondo che non c’è più

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *